Arti, economia globale e sfida etica
Crisi nelle arti dello spettacolo
da parte di Dominique LEROY
- Sezione 1 – la relazione tecno-estetica nella storia delle arti dello spettacolo
- Sezione 2 – specificità dell’economia delle arti dello spettacolo
- Sezione 3 – nuove tecnologie e movimento di liberalizzazione dei mercati culturali ed artistici
- Sezione 4 – l’erosione dei valori estetici nell’ambito del movimento di globalizzazione
- Sezione 5 – gli attori della globalizzazione artistica : Stati, organizzazioni internazionali, imprese multinazionali
- Sezione 6 – sfida etica della globalizzazione economica allargata al campo estetico
- Sezione 7 – creazione e creatività
- Conclusioni provvisorie
In questa prova, vorrei mostrare che se esistono interazioni che comportano le trasformazioni congiunte dell’arte e dell’economia, le forze storiche in presenza dipendono da determinazioni differenziate più o meno distanti di quelle dell’economia normativa. Nella sua globalità, l’arte non costituisce un mercato, l’artista non è un imprenditore, un teatro non è un’impresa come gli altri e la concorrenza che regna in questo dominio sorse maggiormente dall’emulazione che della concorrenza.
“L’erosione dei valori„, che constata Karl Homann a proposito dell’economia generale, si traduce in modo particolare nell’ambito del campo artistico dove gli attori che sono gli stati, le organizzazioni internazionali, i mercati e le imprese multinazionali svolgono un ruolo specifico ed a volte contradittorio, accanto agli artisti ed al pubblico che resta eminentemente attori principali.
Sezione 1 – la relazione tecno-estetica nella storia delle arti dello spettacolo
Di primo acchito, occorre prendere in considerazione la singolarità delle arti dello spettacolo nell’ambito dell’economia generale perché la produzione vi è nella sua benzina straniera al progresso tecnico standard. Se si considera l’inserimento delle nuove tecniche nel corso della storia delle arti, si assiste all’inserimento di tecnologie che sorgevano ad un concetto specifico che avrò qualificato come “progresso tecno-estetico„. Certamente, gli uomini dell’arte sono sempre stati al montaggio di innovazioni tecniche e delle loro applicazioni possibili – contrariamente a ciò che si potrebbero pensare di una concezione “eterea„ della creazione – ma la precisazione che occorre chiedere è bene : “tale progresso, per che fare ?„.
La mia opinione si interesserà alla forma originale dello spettacolo detto “vivo„ (teatro, concerto, opera, danza, ecc.…), quindi si estenderà allo spettacolo “registrato„ (cinema, televisione, ecc.…). Me arriverà anche di fare qualche incursione in altri settori del campo artistico come “le arti plastiche„. Considererò lo sviluppo tecno-estetico nella sua totalità – “spettacolo “vivo„ – “registrato„ – “diffuso attraverso i mass media„ – “digitalizzato„„ – riguardo all’interdipendenza, il mimetismo e le corrispondenze sempre più prégnantes tra queste varie dimensioni nel settore dello spettacolo come in quello “delle belle arti„.
L’innovazione tecno-estetica non ha mai svolto un ruolo secondario nelle arti dello spettacolo. Si è estesa dall’applicazione delle regole “della prospettiva„ all’inizio del Rinascimento “alla scena strutturata„ di Palladio. Dopo l’illuminazione con le candele ed i quinquets delle età classiche e barocche che illuminavano la totalità della sala di spettacolo, si è passati all’illuminazione al gas che rovescerà l’arte scénographique all’inizio del 19° secolo separando la scena della sala, essa stessa tuffata nell’oscurità. Più tardi, l’elettricità rivoluzionerà l’estetica spettacolare prima che l’elettronica aumenti la meccanizzazione della scena teatrale. Contrariamente a ciò che avverrà nell’economia in generale, l’elettricità non servirà né ad aumentare presunti “di rendimenti„ nella produzione artistica (se ciò ha un senso !), né aumentare un profitto finanziario che alcuni direttori di stabilimenti avrebbero potuto sperare.
Nella storia delle arti dello spettacolo, i cambiamenti tecno-estetici hanno dunque conosciuto forti ampiezze. Hanno sposato, a volte con una riserva comprensibile, le forme d’evoluzione del sistema economico e politico generale. La funzione del teatro non è la stessa sotto i governi di Louis XIV, di Napoleone o della repubblica. Il loro sistema d’organizzazione è passato, nell’ambito della fase d’aumento del capitalismo, “da uno stock system„ (sistema “della truppa permanente„) “ad una Combination System„ (una sala, un’opera, una distribuzione, una produzione ed un finanziamento composti in attesa di speculare su un’opera considerata come “prodotto„), cosa che spiega perché questo cambiamento economico è stato realizzato tanto a Parigi che a Londra o negli Stati Uniti. Si assiste, durante il 19° secolo, alla penetrazione progressiva “del sistema teatrale„ con strutture di tipo capitalista, o anche ad una forma “di industrializzazione„ dei teatri : concentrazione della proprietà delle sale, lavoro salariato degli artisti, “speculazione„ sulle opere, gestione orientata verso i profitti, standardizzazione dei temi e delle opere, fidelizzazione delle udienze (con l’abbonamento, ecc.…), centralizzazione nello spazio nazionale della creazione e captazione di nuovo pubblico per i tondi commerciali, comparsa degli impresari e predisposizione di intermediari come le agenzie drammatiche. La comparsa “del star – system„ nella seconda metà del 19° secolo si è collegato anche al capitalismo finanziario dominante poiché permette simultaneamente di aumentare da un lato i prezzi e le entrate di un importo superiore ai sigilli “delle teste di manifesti„ (“star„, “vedette„ o “stelle„), ed un altro di quotato di diminuire i carichi fissi in seguito alla scomparsa della truppa fissa e della depressione delle retribuzioni intermedie.
Sezione 2 – specificità dell’economia delle arti dello spettacolo
Mi occorre ora introdurre alcune riflessioni teoriche per osservare più completamente la specificità dell’economia delle arti dello spettacolo rispetto alle altre attività della produzione generale.
Nell’ambito di un modello d’economia globale ed in condizioni di crescita lunga, si possono considerare da un lato settori “progressivi„ (macchina ad esempio) dove è possibile aumentare i salari orari medi pur mantenendo prezzi stabili a causa della diminuzione dei costi unitari legati ai guadagni di produttività dovuti al progresso tecnico. Di un altro vi ha quotato settori che si possono qualificare come “stagnanti„ perché “soffrono„ per l’assenza di guadagni di produttività e non possono beneficiare del pari degli effetti del progresso tecnico. Così “la riproduzione„ di un quartetto di Mozart richiede la stessa quantità “di lavoro„ (ripetizioni, rappresentazioni, ecc.….) al 20° secolo soltanto al momento della sua creazione. Ne è quasi di stesso per un’opera di Gluck dinanzi ad un pubblico d’opera : nelle due situazioni, il prezzo di realizzo di una rappresentazione subisce avanti tutta l’aumento corrente dei salari ed altri carichi estetici perché un’ampia parte di queste spese, incompressibile poiché contenuta da convenzioni estetiche, deve essere riflessa completamente nel prezzo dei posti.
Se l’aumento dei costi del settore “stagnante„ può, inizialmente, essere compensato da un aumento equivalente del prezzo dei posti, il momento verrà dove l’aumento senza discontinuità dei prezzi si rivelerà controproducente in termini d’udienza. Il pubblico si devierà di questi “prodotti„ per sostituire consumi i cui prezzi si abbassano (spese culturali e di svago, beni di consumo competitivi, ecc.…). Esistono ovviamente mezzi alternativi per limitare quest’effetti : aumento della misura delle sale, aumento del numero di rappresentazioni, selezione di opere di cui la distribuzione si riduce ad un numero decrescente di attori, ecc.…, ma non è affatto possibile ritardare indefinitamente il momento in cui, il deficit diventando strutturale, ogni azione nuova può rivelarsi insufficiente per contrastare l’aumento inevitabile dei costi. Se si venisse a modificare “la qualità„ del prodotto artistico, ciò ritornerebbe a disconoscere il valore intrinseco e le convenzioni del genere nella preparazione, l’esecuzione e la diffusione dell’opera. L’esempio, preso fra tanto altri, circhi dove, per ragioni finanziarie, l’orchestra è stata ridotta a due o tre musicisti sostenuti “da un stereo„, costituiscono evidentemente una pratica artistica condannabile !
Per affrontare situazioni strutturalmente deficitarie, gli stabilimenti di spettacolo sono allora obbligati a cercare aiuti finanziari crescenti. Queste devono aumentare ad un tasso così elevato come la divergenza crescente dell’aumento relativo dei costi unitari nell’industria (settore “progressivo„) e nel settore artistico (“stagnante„). Quest’effetto è richiesto “malattia Baumol„ (“Baumol disease„), del nome del grande economista americano che ha dimostrato questa legge “dei costi comparativi„ sfavorevole “allo spettacolo vivo„ – e del resto généralisable ai settori “stagnanti„ dell’arte e di un’ampia parte dei servizi. Si applica, sebbene in modo attenuato, nei media audiovisivi in cui si trova la stessa opposizione tra segmenti artistici stagnanti da un lato, e segmenti tecnici progressivi dell’altra. I primi elementi, che corrispondono a costi di produzione artistici e scénaristiques, subiscono la legge dei costi relativi crescenti, cosa che spiega la diminuzione a volte drastica delle creazioni audiovisive e la loro sostituzione con litanie di repliche.
Questa “legge di bronzo„ si applica inizialmente “al patrimonio„ teatrale il cui grande numero di opere vecchie non può essere rappresentato al giorno d’oggi nel quadro di una produzione corrente e con un lusso assolutamente comparabile d’allestimento (Cf “il meraviglioso„ della scena barocca, gli allestimenti esagerati della grande opera parigina e le distribuzioni “pesanti„ dei melodrammi e vaudeville del boulevard parigino al 19° secolo !). Per le opere “di creazione„ invece, se è necessario contrastare l’effetto Baumol con alcune “inganni„, tipi di cambiamenti tecno-estetici che sorgevano dallo sviluppo storico complesso, la costrizione tecno-estetica continua ad applicarsi con la più grande forza finché gli artisti e gente di teatro rifiutano di vendere il loro cuore al diavolo e si rifiutano di sacrificare la qualità intrinseca della loro arte alle potenze del denaro ed alle sirene del profitto.
“Siamo commercianti„ martellava Hippolyte Hostein, la dinamica direttore del teatro parigino della gaiezza. Era al bel mezzo del 19° secolo, e richiedeva la libertà economica dei teatri contro la cornice che soffoca del sistema napoleonico… Si conosce la regressione terribile artistica che se ne seguirà, dopo la legge di 1864 sulla libertà teatrale, e che condurrà le arti dello spettacolo verso la crisi esistenziale acuta dei primi dopoguerra, in mancanza di sostegni. Lo Stato uscirà allora dalla sua “neutralità„ e sarà nell’obbligo estremo di salvare i teatri, di Parigi e soprattutto di provincia, a partire dal fronte popolare e definitivamente dopo la liberazione.
Sezione 3 – nuove tecnologie e movimento di liberalizzazione dei mercati culturali ed artistici.
I cambiamenti sistemici dell’arte occidentale alla svolta del 20° secolo hanno permesso di superare i vicoli ciechi estetici in tutti i domini : arti visive che evolvono verso il non figurativo e l’astratto, musica classica che trasgredisce i limiti della melodia, simbolismo negli allestimenti per lottare contro gli eccessi di meccanizzazione delle scene, ecc.….Alla fine del 20° secolo, questi cambiamenti sono molto più profondi e superano un vero salto qualitativo con l’irruzione di nuove tecnologie radicali che in tutta la dimensione del dominio delle opere dello spirito e della sensibilità.
C’è infatti un legame di consanguineità tra l’arte contemporanea e le tecnologie dell’informazione, della riproduzione e della diffusione culturale ed artistica. Come la moneta elettronica ha generato la globalizzazione finanziaria, stesso del computer e Internet conducono al più grande cambiamento tecno-estetico che hanno conosciuto le arti dal Rinascimento. Tutte le funzioni culturali – creazione, diffusione, formazione, conservazione – “sono urtate„ dalla rivoluzione informativa e la nuova “cultura web„. Non si sa, ad esempio, a dove può condurrci un’innovazione emblematica come la trasmissione di spettacoli lirici (di Metropolitan Opera di New York, del Bolchoï, dell’opera di Parigi, ecc.…) in tempo reale verso sale cinematografiche multiple attraverso il mondo. In questo caso precisi, le sfide umane e culturali sono considerevoli (il 7 aprile 2012, Manon de Massenet di “mette„ è stato diffuso in diretta a destinazione di 3 milioni di spettatori in 54 paesi !), e le sfide economiche non lo sono meno (il vantaggio della stagione 2011-12 è stato di 12 milioni di dollari per lo mette di New York). Ma alcuni non trascurano di considerare che a questa produzione relativamente a grande scala corrisponde “un pseudo-pubblico„ di consumatori nella nebulosa di un mercato planetario succoso.
All’opposto dei grandi profitti finanziari e nei domini che si collegherebbero piuttosto ai settori dello svago o dell’informazione, una nuova forma “di cultura„ gratuita ha fatto la sua comparsa con “la nuova economia del netto„. Questa forma non ha nulla da vedere con la problematica della gratuità così come era stata abbordata da alcuni intellettuali europei alla XIX° secolo. “La pseudo-gratuità„ di cui “beneficiamo„ si espone sugli schermi di milioni di computer ed altre smartphoni dove è finanziata dalla pubblicità ubiquitario ed omnipresente che li manganella e “ci fanno passare alla cassa„ in fine di circuito tramite l’aumento dei prodotti e servizi differenziati e complementari del sistema mediatico.
Nel sistema attuale, la globalizzazione punta sulla teoria economica neoclassico per spiegarsi in tre dimensioni (Cf Karl Homann) :
A – INTERNAZIONALIZZAZIONE :
Nel dominio fin da arti dello spettacolo, e soprattutto nei settori dei media e delle arti visive, un mercato globale prolifero con un grande dinamismo e si declina in una folla di opere teatrali (successi confermati delle parti create a Londra o New York quindi giocate in Europa, ecc.…) o musicali (“commedie musicali„, concerti,…), in una miriade di telefilm, di film cinematografici o di serie audiovisive. L’attrazione potente delle creazioni a vocazione sopranazionale consuma purtroppo il valore emergente delle forze crearici locali.
Un esempio d’internazionalizzazione mimétique è fornito dalla formazione degli artisti dello spettacolo e dell’interpretazione musicale così come è evoluta al 20° secolo. In America quindi in Europa, il sistema anglosassone ha costituito un modello dominante che ha preso dell’estensione con “la universitarisation„ della quasi-totalità cursus artistici. Dopo la creazione pioniera “di Department of drama„ di Yale nel 1966, settori universitari sono sorti ad USA ed in Canada, parallelamente ai conservatori ed ai corsi privati d’arte. Si possono citare alcuni esempi che mostrano la loro diversità : “Faculty of musica„ (YorkUniversity), “Department of dance„ (New YorkUniversity), “management in arts program„ (UCLA), “Department of writing„ (Columbia university), ecc.… Al Quebec, negli anni 80, una riforma imponente ha condotto alla costituzione “di facoltà„ di arti plastiche accanto alle scuole di belle arti tradizionali. A loro volta, queste strutture hanno ispirato le università europee dove si è arrivato a pensare che questo nuovo genere di formazione sia più culturale del sistema tradizionale e che “non vi si fabbrichino “fabbricanti di note„… come nei conservatori„ (professore dell’università Laval) !
B – DENAZIONALIZZAZIONE/PRIVATIZZAZIONE :
L’introduzione nel settore pubblico teatrale di metodi “di gestione„ e di criteri di gestione “imprenditoriale„ può essere considerata come una forma attenuata di denazionalizzazione da declassamento delle politiche culturali classiche. È il caso della Francia dove le attività dei responsabili di stabilimento di spettacolo sovvenzionato da molti anni sono valutate e sostenute finanziariamente in funzione dei risultati ottenuti in materia di frequenza, del numero di creazioni, del tasso d’attività, ecc.…
Comportamenti e programmi nuovamente tipo sono incoraggiati, alcuni al grande danno dei difensori di azioni culturali più classiche. Un movimento di riforma si è così fatto il difensore di una gestione “all’americana„ dei musei nazionali. Prendiamo alcuni esempi, in Francia ancora : il Louvre ha prestato ad Abou Dhabi delle centinaia di opere e “ha esportato il suo nome„ in cambio di una somma di denaro considerevole ; Sorbona ha fatto la stessa cosa nel dominio dell’istruzione e della ricerca. Si vede infine il direttore del centro Pompidou dichiarare che “oserà una politica di segno„ per un progetto faro d’espatrio delle opere del centro centri Pompidou poiché, “con la crisi, l’ora non è più alle costruzioni costose, ma all’agilità„…
C – DEREGOLAMENTAZIONE :
È inizialmente economico – con (ad esempio) l’accordo internazionale che lega le grandi opere del mondo in attesa di limitare l’aumento eccessivo dei sigilli dei star dell’arte lirica. È in seguito estetico – con (ad esempio) la scomparsa del sistema “delle scuole„ (pittura olandese del 17° secolo, impressionisti, ecc.…) chi ha caratterizzato la pittura europea del 15° al 20° secolo. Nel dominio fin “da impianti„, il carattere singolare di ogni opera non si vuole assoluto, come in Marcel Duchamp ?
Con “la globalizzazione„, le opere che sorgono in un luogo determinato acquisiscono vantaggi decisivi quando si destinano ai mercati culturali esterni, come nell’economia generale, le industrie o PMI locali guadagnano in competitività preparandosi ad investire il mercato mondiale. Quest’applicazioni brutali alle opere dello spirito e della sensibilità non comportano inconvenienti e scorrettezze ?
Sezione 4 – l’erosione dei valori estetici nell’ambito del movimento di globalizzazione
Al giorno d’oggi, i valori estetici più stabiliti sono rimesse in discussione sotto i colpi di barriera delle nuove tecnologie estetiche, “della cultura web„, dei cambiamenti tecnologici generali e della crisi economica internazionale. La concentrazione capitalistica non raggiunge il suo massimo nel progetto della sovranità mondiale che associa Hollywood, Bollywood e gli studi di Shangaï in piena espansione. Quest’imperialismo culturale può risolvere la crisi legata agli effetti simultanei “della malattia Baumol„ e della fase di difficoltà del ciclo Kondratieff di lungo periodo ?
In tutti i domini, ed in particolare nel settore delle arti visive, il regno del denaro condotto ad un rifiuto dei valori multiséculaires dell’arte occidentale : speculazione libera su mercati apolidi, lancio di giovani “crescite„ tramite modi irregolari e di finanziamenti speculativi sporadici (giovane pittura new-yorkaise, parigina, ecc.…), investimenti a grande scala nella cultura per ragioni che gli sono a priori esterne (turismo commerciale), ibridazioni artificiali e diversificazioni culturali speciose come nei casi “delimitare Line„ “del cross over„ (così “quando il classico incontra il roc„ !).
Con la crisi che è qualsiasi tanto economico che etico, si constata un’erosione multiforme dei valori intrinsechi particolari alle arti dello spettacolo :
– L’aumento delle coproduzioni internazionali fondate su necessità economiche : questo fenomeno riguarda in primo luogo il settore cinematografico ma anche il dominio audiovisivo dove i suoi effetti favoriscono la concentrazione di poli di produzione e di finanziamento potenti. Nel dominio “vivo„, la coproduzione gigante di Turandot al Palais-Omnisport-Paris-Bercy faceva appello a 150 coristi del coro nazionale bulgaro Svetoslav Obretenov per la ragione principale che i contratti avevano potuto negoziarsi in condizioni extra-sindacali…
– “La starisation„ a oltranza : si intendono troppo spesso sulle onde le stesse interpreti che dicono “date la preferenza„ (ma da quale pubblico ?), con “„ il pianista del momento, “più grande„ baroqueux, “incomparabile„ il cantante di lied, “migliore„ il maestro del coro o “migliore„ il coro, ecc.… “Le major„ del disco riducono la diversità culturale come “pelle di dispiacere„ e svuotano l’offerta mettendo a fuoco la produzione di CD-audio su alcuni artisti, su concerti proficui, infine su programmazioni molto “classiche„ e superflue.
– La diffusione artistica mette alla divergenza compositori o generi musicali già cancellati “dalla globalizzazione del gusto„ : citerò l’esempio del cantante britannico Simon Keenlyside, grande dilettante di melodie francesi ma di cui la discografia si compone soltanto “di lieders„ conformemente alla politica commerciale di Sony. È essenziale che ci siano piccole etichette e musicisti che hanno appreso a servirsi da tecnologie d’avanguardia auto-a registrarsi. Ma se questi casi hanno smentito molto parzialmente l’iper-concentrazione generalizzata della produzione musicale, non è Internet – né You Tube ! – chi ci faranno dire che la crisi della diffusione del classico è risolta !
– Secondo alcune critiche, l’uniformazione dei gusti e la globalizzazione musicale spiegherebbero perché le orchestre cercherebbero di ottenere “il suo internazionale„ che decide, in modo che l’originalità del suono delle grandi formazioni orchestrali sia in via di perdita… Ciò che lo lascia un po’scettico, ma ho ottenuto quest’informazione di uno specialista informato della vita musicale….
– La banalizzazione del lavoro artistico
Mi ricordo il giorno dove rimettendo il primo progetto di una relazione chiesta dal Parlamento europeo, lo ero pregato di utilizzare nel titolo l’espressione “lavoratore culturale„ preferibilmente “così al bel nome “di artista„„ che utilizzavo naturalmente. Secondo il mio interlocutore, era meglio utilizzare quest’espressione adatta per restare nel quadro del Trattato di Roma rivolgendosi ai membri del Parlamento con i quali era questione di libera circolazione, di tasso di disoccupazione, di livelli di redditi, ecc.… a proposito di questi “lavoratori culturali„ che sono gli attori, i musicisti, i cantanti o i ballerini.
– Minacce sull’intermittenza
In Francia, gli artisti dello spettacolo hanno acquisito di alta lotta uno statuto che tiene conto delle specificità del loro lavoro (intermittenza, multi-datore di lavoro…) e garantisce loro un controllo della vita professionale per esercitare la loro attività nelle migliori condizioni materiali (regime di sussidio di disoccupazione su criteri specifici, fiscalità adeguata, formazione continua, ecc.…). Attualmente, la professione si preoccupa delle minacce che riguardano il futuro di questo regime molto particolare alla Francia e minacciato dalla globalizzazione ed il movimento d’ostilità all’eccezione culturale.
Tutto ciò lo induce a parlare dei soggetti economici della globalizzazione artistica : Stati, organizzazioni internazionali, imprese multinazionali.
Sezione 5 – gli attori della globalizzazione artistica : Stati, organizzazioni internazionali, imprese multinazionali.
Il liberalismo “puro e duro„, se fosse generalizzato, avrebbe la capacità di scuotere gli equilibri culturali e sociali acquisiti da decenni di lotta dei popoli europei. Da parte sua la Francia, che ha conosciuto una lunga esperienza “nichilista„ soffocando le sue culture locali con secoli di hypercentralisation reale quindi giacobina, ha messo in causa molto tardi questi fattori di desertificazione. Ma occorre capire che tali fenomeni possono ricomparire, questa volta, a livello internazionale e mondiale.
Al giorno d’oggi, c’è un problema reale quando gli stati sovrani subiscono le pressioni di organizzazioni come l’OMC, o quelle di stati dominanti come gli Stati Uniti d’America. Nel 1993, i difensori di un audiovisivo europeo autonomo sono riusciti a guadagnare, di alta lotta, la battaglia contro lo ultralibéralisme culturale ottenendo l’esclusione di questo settore dagli accordi del GATT. La scia, l’eccezione culturale difesa dall’Unione europea e la diversità culturale sostenuta dall’Unesco ha ottenuto per il momento un riconoscimento internazionale. Attualmente, il settore audiovisivo europeo deve tenersi pronto a battersi nuovamente contro qualsiasi rimessa in discussione delle politiche culturali, contro “ogni modello distruttivo delle singolarità nazionali„ (Jack Lang) e era stato questione nel 1998 con il progetto d’Accordo multilaterale sull’investimento (AMICO) preparato dall’OCSE e combattuto in prima linea dalla Francia.
Si può dire che non c’ha stato, a queste varie occasioni, opposizione frontale tra le strategie delle multinazionali mondializzate e le azioni delle organizzazioni globalizzate che si accordano sui vantaggi della liberalizzazione e della deregolamentazione più o meno sfrenate. A differenza delle industrie artistiche piccole o medie che non beneficiano della produzione di un numero elevato o mezzaluna di prodotti, le grandi ditte “integrate„ possono gestire in modo ottimale ogni tappa del processo di produzione (catene, video, Internet, ecc.…). Questo è dannoso per la diversità culturale anche se, secondo un esperto americano, “piuttosto che ad un’americanizzazione, si assiste ad un’omogeneizzazione culturale sempre più grande attraverso scambi in qualsiasi senso di programmi a contenuto sempre più universale„.
Questo riferimento all’universale è sospetto, soprattutto quando proviene da una pseudo-diversità così come può essere raccomandata da responsabili “di major„ del cinema o dell’audiovisivo. Jean-Marie Messier, quando era presiedono di Universal, diceva la stessa cosa elogiando “la glocalisation„ : “se il globale designa una produzione standardizzata che si cerca di imporre a tutti, l’universale, gli designa un’opera singolare, sorta da qualche parte, e che fa il giro del mondo. Da parte mia, non aspiro a costruire una società “globale„, ma costruire, nelle industrie culturali, un gruppo universale…„. Il campo culturale è bene poco fatto nella professione di fede di questo “manager culturale„ quando aggiunge : “Non credo “ad una cultura globale„. Credo in compenso a culture locali capaci di arricchirsi reciprocamente e che possono partorire a successi o miti universali„. Jérôme Clément, vicepresidente della catena franco-tedesca Arti, gli risponde : “Diversità culturale ? Messier ne non ha il monopolio. È la diversità degli attori, dei produttori, dei diffusori, dei sistemi di finanziamento, che fonde questa diversità„.
Con la globalizzazione e la concorrenza mezzala-media, la ristrutturazione inevitabile delle arti può porre problemi d’ordine etico a tutti i livelli, del direttore di sala al produttore, al regista, agli attori ed agli artisti, ai pubblici anche che subiscono la dittatura del mercato quando alcune blockbusters “saturano l’offerta dei complessi cinematografici.
Sezione 6 – sfida etica della globalizzazione economica allargata al campo estetico.
Viviamo un’epoca paradigmatica generalizzata dove non esiste un flashback possibile, né economico né estetico. Di qui l’importanza dell’etica per gli spiriti preoccupati del futuro delle arti : i valori etici sono infatti garanti di una qualità dei valori estetici. Precisiamo che non può essere questione di morale classica in tutto ciò, ma di constatare soltanto l’etica deve adattarsi quando l’estetica stessa evolve in maniera autonoma ed in profondità. È la plasticità dei valori e le loro correlazioni che favoriscono tutto questo movimento.
Sui punti che li interessano, è valorizzante riferirsi al pensiero di Claude Lévi Strauss che costituisce una deviazione profonda rispetto “alla mano stream„ del pensiero postmoderno. In un articolo riguardante le politiche culturali, il grande etnologo-filosofico si chiede se “la fedeltà a sé„ e “l’apertura alle altre„ sono realmente conciliabili e se non c’è “contraddizione ad immaginare che l’originalità ed il potere creatore che, per definizione, hanno una fonte interna, possono essere suscitati o stimolati esterno„ ? Si possono individuare i tre punti seguenti della propria riflessione :
a) l’iper–comunicazione moderna fa che ogni cultura è sommersa dai prodotti di altre culture e, “consumata passivamente, diventa sempre meno ricca ed originale poiché le culture straniere arrivano spogliate della loro freschezza autentica, già contaminate e incrociate da ciò che esse stesse hanno ricevuto altre„.
b) “si potrebbero citare società contemporanee dove le giovani generazioni non hanno più nessun mezzo per farsi una semplice idea di ciò che furono, nella loro autenticità, le grandi opere, diciamo teatrali o lirici, del loro passato. Pretesi “di creatori„, in realtà prodotti di un syncrétisme rudimentale, non vedono in quest’opere soltanto una materia prima che si suppongono il diritto di modellare alla loro fantasia (…) Creare suppone inizialmente che si sia interamente assimilata una conoscenza, che riassume l’esperienza accumulata al filo delle generazioni…„.
c) “il pericolo sarebbe di credere che si tratti soltanto di invertire barriere, di liberare una spontaneità che, dal momento che non sarebbe più ostacolata, prodigherebbe instancabilmente le sue ricchezze (…) Creare consiste sempre nel lottare contro resistenze : materiali, intellettuali, morali o sociali„.
L’argomento di Lévi Strauss può sembrare rigoroso o stupire alcuni. Conduce a dire, paradossalmente e lontano da qualsiasi sofisma, che “qualsiasi creazione suppone una volontà di conservazione (…) Può esistere una creazione autentica soltanto in un confronto a costrizioni che il creatore cerca di girare e di superare„. A proposito di creatività, scrive : “il creatore è quello che, in modo assoluto, innova, o quello che prova della gioia da operare per suo conto, anche se ciò che fa, altri lo hanno fatto prima o lo fa come lui„. Creazione non è innovazione, e “una società che vorrebbe fare di ciascuno dei suoi membri un novatore in potenza (…) non potrebbe progredire né anche riprodursi. Adorando l’innovazione, non per i suoi successi sempre rari, ma per l’innovazione stessa, farebbe a buon mercato delle sue acquisizioni, impaziente che sarebbe di mettere senza sosta diversa cosa al posto„.
Il pensiero di Claude Lévi Strauss appare premonitore per quelli che considerano la crisi profonda di una certa “etica dell’estetica„. Si trova da lui l’idea potente che la creazione si alimenta “ad una fonte interna„ mentre la creatività “è stimolata dell’esterno„.
Sezione 7 – creazione e creatività
Per superare i discorsi aporétiques che si intendono troppo spesso e che sono fatti agli stampini, credo che occorra cominciare a riflettere senza a priori sulla distinzione dei campi rispettivi della creazione e della creatività e procedere con proprio lì a nuove visioni di questi concetti in funzione del contributo di un approccio economico delle arti. Avanzerò allora l’idea che la creazione si riferisce all’etica – l’etica che evoca valori più o meno normativi – mentre la creatività opera sotto influenza della legge economica dominante e si sviluppa indipendentemente dalle norme così come possono essere stabilite “dall’esperienza accumulata al filo delle generazioni„ (ma non soltanto quella delle scuole e delle accademie artistiche).
Opporrò allora “l’etica della creazione„ “all’economia della creatività„, senza che sia presa in considerazione la gerarchia qualunque di sull’altra. Appare che la globalizzazione favorisce l’espansione della creatività, mentre la creazione, nella difesa della sua autonomia rispetto alle forze dell’economia, è di un’altra benzina che la creatività, anche se legami esistono tra esse : così la creatività può eventualmente costituire una risposta economica alla crisi della creazione.
La mia posizione non consiste nel decidere per separarli i due concetti di creazione e di creatività, come in un altro ordine di idee, in materia musicale, mi sembra erroneo tracciare una parete rigorosa tra la composizione e l’interpretazione. Il mio scopo non è di dimostrare che ci sarebbe un assoluto della creazione di fronte ad un assoluto della creatività. Ma rispetto alla norma economica nel suo rapporto d’affari esogeno, c’è un dominio artistico che sorge nei suoi progetti dell’extra-economico, ed un altro dominio artistico completamente diverso stimolato e penetrato di logica economica.
Dirò che la globalizzazione neo-liberala, il mercato-re e le nuove tecnologie estetiche non cambiano nulla a questa situazione. La globalizzazione è l’ultimo avatar da rimettere in questione le relazioni essenziali dell’etica e dell’estetica delle arti. Certamente, il riferimento “alla qualità„ storica non significa nulla d’assoluto, ed occorre essere capaci di rimettere tutto in questione per affrontare la realtà sensibile in cambiamento. Occorre tuttavia resistere, non alla globalizzazione, cosa che sarebbe illusorio, ma ad alcune delle sue conseguenze, osando la critica libera quando e dove occorre.
François Perroux scriveva : “Ogni società capitalista funziona regolarmente grazie a settori sociali che non sono impregnati né animati dello spirito di guadagno e della ricerca del più grande guadagno. Quando l’alto funzionario, il soldato, il magistrato, il sacerdote, l’artista, lo scienziato è predominato da questo spirito, la società crolla e qualsiasi forma d’economia è minacciata. (…) „. È la questione etica centrale che è sollevata dall’erosione dei valori estetici che non possono essere screditati nell’insieme in nome di un sistema capitalista in difficoltà. L’opera “creata„ prende la sua consistenza in riferimento ad un’etica estetica, non in riferimento ad un mercato. Il mercato, che orienta la creatività, non risponde ad un valore etico, ma essenzialmente ad un valore economico.
Le condizioni della creazione artistica sono atemporali e méta-économiques, mentre quelle “della produzione„ artistica sono temporali e perita-economico. Se la creazione è una lunga pazienza e l’attitudine a prendere pene infinite, si oppone per definizione all’economia che è anzitutto un’economia del tempo e del denaro. “La produzione„ artistica moderna si è collegata alla creatività, ad esempio quando sceglie “scorciatoie„ che sorgevano da un multiculturalismo “rudimentale„. La creazione, è il risultato di lunghe “deviazioni„. È per ciò che la creatività è dell’economico globale (come la globalizzazione), mentre la creazione è di un’etica universale (nel tempo e nello spazio). Tra i due si situano delle zone grigie “della creazione„ e “della creatività„.
Conclusioni provvisorie :
Per superare la legge di bronzo baumolienne sul lungo periodo, ho parlato della necessità di giocar di astuziae, cioè di trasgredire le regole di qualità così come sono trasmesse in modo patrimoniale nella creazione. Quanto alla creatività, si fa nuovo modo e nuova distribuzione : pur trovandosi influenzata da altra estetica (come quelle dei media), gioca la carta della concorrenza e della segmentazione, e là si può dire che deve molto fare. La pressione economica impegna “il creativo„ a prendere scorciatoie riguardo al contesto storico, mentre “il creatore„ opera deviazioni di creazione fuori del tempo economico e del court-termisme.
Ne consegue che la creatività è destinata a seguire la dittatura del modo ed è prigioniera del successo poiché è nella sua logica di essere afferrata da ciò che è “nell’aria del tempo„, con la tentazione del sensazionale, dello scandalo o della provocazione, seguendo il modello mediatico o quello suddetta “di cultura Internet„, infine ispirando il multiculturalismo di facciata di alcune ibridazioni o di musiche troppo rapidamente dichiarate “del mondo„. Non è passare accanto a tutta l’arte moderna e contemporanea soltanto di scrivere ciò…
Le sfide sono fondamentali per noi, gente del SEC, poiché impegnano ad una riflessione sotto un angolo particolare “della politica di cultura„, ad una rivoluzione educativa dei giovani affinché si liberino dalla pressione delle immagini, dai media e dal digitale, “ad un’economia di cultura„ degna “di una politica di cultura„, e che rispetta l’autonomia della creazione artistica.